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IL CASO MORO: L’AGGHIACCIANTE VERITÀ

IL CASO MORO: L’AGGHIACCIANTE VERITÀ

Cari Amici,

penso che mi scuserete se riprendo una breve parte di quanto riportato nel mio scritto sulla morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, “Il generale che sapeva troppo”, riferita al collegamento della sua morte con il caso Moro, ma è necessario per fare un quadro il più completo possibile sull’uccisione dello statista italiano, verità venute alla luce anche dopo decenni dalla morte del grande statista.

Francamente non avevo in programma un intervento sulla vicenda del presidente DC, ma il filmato di Bellocchio dato su Rai 1, riapre una ferita dolorosa, dai contorni desolanti, squallidi, amari, e credo sia necessario dare conto di una realtà che non solo i giovani, ma anche molti adulti, non conoscono nella sua drammaticità: un groviglio di depistaggi, menzogne, inefficienze volute. Poiché la storia è lunga, la riassumerò a puntate.

Quanto sostengo è suffragato da una documentazione attenta, frutto di un lavoro di collegamento, nel tempo, di diverse fonti, a partire dalle indagini del giudice istruttore del caso, il compianto Ferdinando Imposimato, che spiccò il mandato d’arresto per Laura Braghetti e alcuni suoi compagni di lotta. Imposimato, grande ufficiale della Repubblica, fu presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione e giudice istruttore di alcuni tra i più importanti processi di terrorismo: dall’omicidio di Vittorio Bachelet, al caso Moro, all’attentato a papa Giovanni Paolo II.

 

In seguito ad indagini, processi, commissioni parlamentari, fu ricostruita, negli anni, una verità orrenda. Prima del rapimento Moro e dell’uccisione di tutti gli uomini della scorta (i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e gli agenti di polizia Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera) era pervenuta una segnalazione sul possibile rapimento del presidente DC. Ma nessuno mosse un dito.  Anche diversi servizi segreti stranieri ne erano a conoscenza, non solo quelli americani.

 

Nonostante le tante smentite del dopo, in non pochi sapevano dell’appartamento romano di via Montalcini in cui era prigioniero il presidente della DC, acquistato, a nome di una zia, da Anna Laura Braghetti, compagna di Prospero Gallinari (il carceriere, insieme a Mario Moretti), con annesso box dove era tenuta la Renault rossa nel cui bagagliaio venne rinvenuto il cadavere di Moro. L’appartamento venne comprato col denaro del riscatto dell’industriale genovese Piero Costa, come dissero i brigatisti poi arrestati. Nonostante fosse una zona tranquilla, la Braghetti aveva fatto installare alle finestre delle grate di ferro.

Dopo la morte di Moro, venne alla luce che la brigatista era stata pedinata da personale dell’Ugicos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali, e che alcuni abitanti dello stabile avevano esternato qualche sospetto a personaggi dei servizi che li avevano avvicinati.

Individuato il luogo, questo fu tenuto sotto controllo da agenti italiani (Gladio, la quinta divisione del SISMI), tedeschi (gruppo GSG) ed esperti dell’antiterrorismo inglese (SAS). Per diversi giorni tennero d’occhio il palazzo di via Montalcini. Gli inglesi installarono postazioni di ascolto sul pavimento dell’appartamento del piano superiore a quello in cui era tenuto Moro. Alla famiglia che vi abitava fu detto di spargere la voce nel condominio che andavano in vacanza. Una telecamera venne inserita in un lampione vicino al portone della prigione di Moro. Dove venivano consegnate le riprese? A Roma, a Forte Braschi, sede dei servizi segreti militari. Dove finirono quei filmati?  

L’irruzione venne programmata per l’8 maggio, ma ecco che giunse l’ordine di smobilitare, di ritirarsi. E fu grande la rabbia, lo sconcerto, l’amarezza di quegli uomini, che per giorni e notti avevano svolto un grande lavoro investigativo, nel dovere abbandonare lo statista al suo destino, perché tutti avevano capito che Moro era stato abbandonato.

Il generale Dalla Chiesa andò su tutte le furie, il vicecapo della polizia, Emilio Santillo che si era battuto per la liberazione dello statista rimase impietrito, gli agenti stranieri rimasero sbalorditi. Non riuscivano a credere a quell’assurdo ordine di lasciar perdere tutto e andar via. La motivazione? Il presidente DC poteva essere colpito da fuoco amico o ucciso subito dai terroristi.

Il giorno dopo, il 9 maggio, con una telefonata al professore Francesco Tritto, le BR comunicarono l’uccisione dello statista. Moro poteva essere salvato. Riferì uno dei militari che erano in via Montalcini al magistrato Imposimato “Gli ordini ricevuti furono di dimenticare e non azzardarci a chiedere altre spiegazioni”. Un altro testimone: “Rimanemmo tutti senza parole, perché non capivamo il perché di questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire”.

Il grande cruccio di Imposimato espresso anni dopo il delitto: il Viminale non ha mai ammesso pubblicamente che la prigione di Moro, e luogo della sua uccisione, era in via Montalcini, 8.

 

Abbiamo detto che tra le file degli uomini dello Stato, diversi erano a conoscenza della preparazione del rapimento di Moro. In una lettera del 2 marzo 1978, il ministero della Difesa consegnò una lettera (si fece poi di tutto per tentare di farla passare per falsa, ma il perito ne accertò l’autenticità), a un militare assegnato a Gladio con il nome in codice G71, Antonino Arconte, perché la portasse a Beirut via mare e la consegnasse a un ufficiale, appartenente alla stessa struttura supersegreta, nome in codice G216, in seguito identificato come il colonnello del Sismi, Mario Ferraro. Gli ordini erano di distruggere immediatamente il documento, dopo averlo letto, cosa che il colonnello non fece.

Nella lettera del Servizio Informazioni della Marina Militare, si comandava un intervento presso gruppi terroristici mediorientali, per avere utili informazioni atte alla liberazione dell’onorevole Moro. Soffermiamoci un attimo sulla data contenuta nel dispaccio: 2 marzo 1978. Quindi si parla della liberazione di Moro 14 giorni prima che il sequestro avvenisse (16 marzo 1978). Quando il messaggio pervenne nelle mani di G216? Il 12 marzo: quattro giorni prima del sequestro. A questo punto i casi sono due: o i servizi segreti italiani avevano doti di preveggenza o, più realmente, già sapevano del programmato rapimento dello statista.

Negli anni ’90, capitò al colonnello di accennare di quella stranezza ad alcuni colleghi. Ma dovette pentirsi subito, perché iniziò ad accennare al timore di essere ucciso. Tanto che, chiamato Arconte, che era stato al suo ritorno da Beirut congedato d’ufficio (sic!), gli consegnò la lettera.  Gli disse di attendere sue notizie per decidere, insieme, se renderla pubblica o no. Il dispaccio avrebbe provato che i Servizi erano a conoscenza dell’imminente sequestro dell’onorevole Moro.

Meno di un mese dopo, Ferraro venne trovato impiccato con la cintura dell’accappatoio fissata al portasciugamani del bagno di casa. Ufficiali dei Servizi si recarono subito sul luogo e portarono vie alcune cose. E si parlò subito di suicidio. Ma come aveva fatto il colonnello ad impiccarsi con la cintura dell’accappatoio legata a un portasciugamani posto a un metro e venti di altezza, lui che era alto circa un metro e ottanta e pesava più di 80 chili? Va riportato che la perizia meccanica ordinata dalla magistratura evidenziò che la cintura dell’accappatoio non avrebbe potuto reggere un peso di oltre 80 chili e che le viti che ancoravano al muro l’asticella dell’asciugamano, si sarebbero dovute staccare. Eppure sia la cintura, sia le viti erano perfettamente integre. Vennero rinvenute anche delle ecchimosi sul collo dovute a pressioni di soffocamento non compatibili con la cintura dell’accappatoio. Eppure, la morte del colonnello Ferraro venne archiviata come suicidio.

  1. Continua

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